Tasse eccessive? Ci pensano gli Orsi

Un intreccio tra debiti e tributi, poi Girolamo Riario fu defenestrato. Ecco cosa accadde secondo Leone Cobelli

L'area un tempo occupata da Palazzo Orsi, quartier generale dei cospiratori contro Girolamo Riario, e i blasoni Orsi, Pansecchi e Ronchi (da Ronco)

Questa storia insegna o conferma che è difficile riscuotere debiti anche se si è il Signore di Forlì, poi figuriamoci – dando retta ai luoghi comuni – cosa potrebbe accadere se il Signore in questione è ligure. Tutto avviene in questi giorni del 1488, chi comanda è il conte Girolamo Riario, detentore di uno Stato bipolare con Forlì e Imola insieme. Basti per ora dire che nel mese di marzo del 1488 “passate li feste del carnevale e venuta la quadragesima”, il Signore mandò a chiamare Checco Orsi per una questione che si trascinava dietro da tempo: “Non te pare hora homai di darme i miei dinari?”. Con queste parole, annotate da Leone Cobelli, si entra nella spirale che poi culminerà con l’assassinio del Riario. Già, Leone Cobelli, contemporaneo agli eventi, dedicò molto inchiostro ai fatti che portarono al regicidio del conte poco amato, ormai più noto per essere stato marito di Caterina Sforza. Il ritmo della cronaca dettagliata è incalzante e si sviluppa come una sceneggiatura dalle tinte melodrammatiche, pur prestandosi a una buona resa anche ad arti proprie del contemporaneo. Non manca niente: un tiranno spedito a Forlì da lontano, scarsamente affine al popolo che governa, pensieroso, astioso, che si fa (mal) consigliare da vecchie volpi romagnole interessate al proprio orticello più che alle sorti della Città e dello Stato. Tra brontoloni, avidi, e nostalgici degli Ordelaffi, emergono figure come gli Orsi e comprimari, una congrega che sembra quasi di vederla, ancor più se ascoltata nella lingua riportata dal Cronista (tra l’altro non certo imparziale nè oggettivo). 

Alla fine del 1487 Girolamo Riario era molto malato e i forlivesi lo credettero morto o lo speravano, forse questa sua debolezza fece alzare la testa ai suoi oppositori, e sia chiaro che la tempra di Caterina Sforza, allora ventiquattrenne, non s’era manifestata. Si era inimicato un po’ tutti perché aveva introdotto una tassazione cui i forlivesi non erano avvezzi. Alcuni fecero azioni, senza esito, per riportare a Forlì Antonio Maria Ordelaffi, altri si limitavano a mugugnare nel silenzio delle proprie case, altri ancora affilavano coltelli. Nel gennaio 1488 “molti contadini di diverse ville del contato de Forlivio” si recarono con le loro lamentele dal conte Girolamo dicendo di non poter pagare più tasse “considerando che non avevano niente de stabile nè vigne nè terre, che già bon tempo c’aveano vendute le loro robe”. Piuttosto – suggerivano – si faccia “pagare quelli c’avean conparato le robe”! Il Signore accondiscendeva e rispose: “Si non avite niente, non pagate niente”. Ma quei soldi dovevano entrare in cassa, pertanto il Governo forlivese inviò Antonio da Sassino a indagare su chi, effettivamente, avesse dovuto conferire tributi. In effetti, ciò sarebbe spettato a “citatini e artisani”. Egli suggerì di tenere un registro, così “rata per rata paghino queste tasse che pagavano contadini”. Fu quindi intimato a quelli che poi si sarebbero chiamati borghesi di versare “a termine di 15 dì” quanto dovuto. Ecco, dunque, Ludovico Orsi che rimproverò Antonio da Sassino dandogli dello sciacallo: con le sue “novelle e frittelle”, infatti, “per avere qualche hofficio e mettere sè in gracia del signore” rischiava di rendersi ostile a “tucto el populo”. Insomma, far pagare “citatini e artisani” comporterebbe “la roina de Forlivio”. 

Era Carnevale quando Riario chiamò “da un canto” Ludovico Orsi, e gli disse: “Torto non voglio fare ai contatine, che non àn niente, e àn vendute tucte le lor robe. Io voglio che chi à conparato de quiste robe paghe le tasse rata per rata”, ripetendo pari pari le parole che aveva ascoltato, chiedendogli un parere su questo. Ovviamente Orsi inizia a dire che chi l’ha consigliato “non son vostri amici, anci nemici mortale de voi e di vostri figlioli”. Sono “robaldi”, che “non fan questo già per l’utilità de la signoria vostra, ma per la loro, e per possere ben robare et eciam per mecterve a disgrado del populo”. E di più, chi ha suggerito tale politica al Riario (che per conto suo “non sa queste cose”) è “el diavolo” intervenuto “per ronpere lo collo a voi e a noi”, insomma: “non li credite”. Altre frasi degne di convincimento: “Non abiate paora de’ contadini: chè, finchè li citadini e artisani son d’acordo, li contadini àn paciencia”. Oppure: “Lassate pagare a chi è uso de pagare, e non en fate istima; datigli boni parole, e fate a mio consiglio, e non date audencia a quisti robaldi che cercano la roina del populo e vostra”. Per corroborare il parere si lancia in lezioni di storia da cui si evince che la pressione fiscale da queste parti era sempre stata lieve. “Voi non conossite questo populo come faczo io”, insomma, “tolite quello che possite” perché “a voi non fa tanto de bisogno quiste tasse”. Riario non la prese benissimo: “Voi sempre m’avite dato contro” si limitò a dire dopo un lungo tempo di ascolto silenzioso, quindi se ne andò in camera sbattendo la porta. Ludovico rimase turbato e volle confidarsi col fratello Checco che, va da sè, doveva dei soldi al Riario per un dazio sulla beccheria e si ostinava a prendere tempo per dare il dovuto. Nei giorni successivi seguono ripetute richieste (vane) anche a quattr'occhi di saldare il debito.

Il 10 aprile, mentre Checco Orsi “venìa da la messa de San Mercuriale”, fu fermato in piazza da Riario che gli disse: “Non te pare ura ancora?”. Tentò quindi di disimpegnarsi con le solite storie, pertanto il Signore s’adirò e si chiuse in camera. In quel momento, come uno sprovveduto entrò a palazzo Giacomo da Ronco (Ronchi) “non sapendo che el conte fosse irato”. Perché si rivolse a Riario? “Datime del mio servito qualche dinari”, insomma voleva soldi e non era proprio l’argomento più appropriato. Il signore, già accalorato, gli chiese di andarsene subito: “Io non te darìa un pestachio; e levamete dinance; e si non sei savio te farò appiccare”. A questo incontro se ne aggiunge un altro: Lodovico Pansecchi il quale “non sapea niente che el conte fosse torbato per Checco”. Costui, dalla piazza, vide Riario preoccupato e mesto, “ponciato con el gomito a la finestra ch’è sopra la piacia”, così lo chiamò e forse per stemperare la tensione gli scappò da ridere, ma poi fu esplicito: “vi piacia aitarme de qualche dinari”. Altra richiesta di soldi. Girolamo Riario, savonese, non poteva tollerare un tale stillicidio a fronte di poche quietanze. La situazione precipitò. 

Il 12 aprile, Ludovico Orsi entrò nella bottega di Lorenzo Orselli “citadino richisimo”: erano amici da tempo, ma egli lo guardava “como ismemorato”. “Che avite voi, che site tucto iscanbiato nel viso?” gli chiese Orsi, ma l’amico lo prese in disparte, e “quasi piangendo” rivelò: “M’è stato facto comandamento che io non usi più con voi, ed è parichie giorni che el conte Gerolimo me ‘l disse”. Ascoltando questa novità, Orsi sentì “un trimoliero” e “una gran paora”. Perché? “Io non in so altro”. Reticente, l’amico, e l’omertà significava “magior sospeccione”. Nel frattempo Checco “andava su e giù per la piacia”, e lo faceva “fantasticando”: “non sapea che fare”. Lo raggiunse Giacomo da Ronco e condivisero “affanni, dolori e malinconie”. Fortuitamente a questa combriccola si aggiunse, sul Ponte del Pane, Ludovico Pansecchi: “S’il conte ce vedesse dirìa che rasonassimo di lui” (non era forse così?). Si presero tutti e tre “per lo bracio”, una volta che Checco fu a casa vide il fratello Ludovico “indemoniato c’andava de su e giù per l’orto e per lo cortile”. Non parlava, roso dall’angoscia, poi sbottò: “Voi me domandate quello che io ò? Io ò che omai non ce porò più vivere nè stare a Forlivio”. E continuava: “Io vego e cognosco che el conte Gerolimo m’à preso in hodio”. 

In quella casa, Palazzo Orsi, “el dimonio infernale lavorava” e “stettero più de tre hore in quiste rasonamenti”. Tutti convennero che la loro vita era rovinata dal “faraone bivitore de sangue de pover’omini” e fu Giacomo da Ronco che disse quello che nessuno aveva osato esplicitare: era tempo di congiura, i forlivesi erano esasperati. “Voi hordinirite li vostri amici e partisani secretamente e starite atento: nui anderemo e faremo la facione. Facto che faremo questo, el remore se leverà. Voi verite fori con questa gente, gridando: Libertà, libertà, e a saco lo palacio! E pigliarite la piacia. Tucti artisani e citadini tiraranno a la voce de la libertà e al sacomanare del palacio; e per questa via verà facto lo nostro intento”. Gli Orsi, Checco e Ludovico, approvarono e predisposero il disegno: “Oltra su! Faciase”. Due giorni dopo, alle 23.30 di lunedì 14 aprile 1488, Girolamo Riario fu ammazzato. Il suo corpo, ferito mortalmente da pugnalate, fu spogliato e gettato da una finestra dell’attuale Municipio. Nuovo Signore di Forlì sarà il figlio Ottaviano Riario: era fanciullo, pertanto la reggenza venne assunta dalla madre Caterina Sforza che in questo modo divenne la “Tigre” e la padrona incontrastata della Città per circa dodici anni. L’ira di Caterina s’abbattè sugli Orsi e sugli altri congiurati che avevano goduto di appoggi importanti: Antonio Maria Ordelaffi, papa Innocenzo VIII e Lorenzo de’ Medici. A proposito di prestiti e debiti: su parte dell'area sventrata per vendetta, in luogo del vasto Palazzo Orsi, qualche anno dopo sarebbe sorto il Monte di Pietà. 

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