La “Signoria popolare” di Mastaguerra

A metà del Duecento sorge una meteora della storia di Forlì: Simone Mastaguerra. Fu un tiranno o un campione di libertà?

Andrea e Simone Mastaguerra, secondo le illustrazioni de "L'assedio di Forlì"

In un periodo lontano della storia di Forlì comunale, quando nemmeno gli Ordelaffi erano così potenti, emerse una figura controversa che evidenzia tutti i limiti della storiografia. Simone Mastaguerra, infatti, è un perdente: ciò che venne scritto di lui fu terribile e ora riesce difficile risalire a una parvenza di oggettività. In quel 1257 tutto sembrava assai confuso, in un clima forzato di pace tra guelfi e ghibellini (che a dire il vero pare scontentasse tutti) nel bel mezzo di fastidiose ingerenze di Bologna, ecco una figura oscura di cui sfugge perfino il nome esatto (Mascaguerra, Mastaguerra, Mestaguerra). Chi era costui? Si sa che può essere definito, almeno per tre anni, Signore di Forlì. 

Nella seconda metà del Seicento, lo storico aristocratico Sigismondo Marchesi ne dipinse un ritratto orribile: egli per tre anni “tiraneggiava senza rispetto d’altra legge che dal proprio capriccio”. Segnalò “rapine, e altri danni, e eccessi”, per quello che sarebbe stato un “iniquo giogo sopra la Patria”. E si trattava di un “giogo” che è “vile”, “obbrobrioso” ancor più perché il Mastaguerra era annoverato tra i “popolari” cioè “di bassissimo sangue nato”. I forlivesi si sarebbero vergognati di “essersi lasciati sottomettere da un plebeo”. Quindi l’insurrezione, la sua fuga e la morte del fratello Andrea per mano della famiglia Peppi. Marchesi, dunque, prese sul serio la lezione di Guido Bonatti (testimone oculare ma non certamente imparziale) che godette nello scrivere che il tiranno fu “bannitus” (bandito) dalla città e cadde perché vigliacco e pusillanime. Sarebbe stato infatti lo stesso Bonatti a guidare i forlivesi alla sollevazione contro Mastaguerra.
Mutuando queste parole, nel 1911, Luigi Silvagni, nel suo volume “Guelfi e Ghibellini in Forlì”, lo definiva “uomo turbolento ed ambizioso” che “si era imposto a tutti i magistrati ed ai signori della comunità e signoreggiava Forlì a suo beneplacito; sicché si poteva dire che il bene ed anche la vita dei cittadini erano in  sua mano”. Pertanto il sogno di tutti era “liberarsi da questa tirannia” finché “guelfi e ghibellini uniti insorsero come un sol uomo”. Mastaguerra fu “costretto a fuggire” mentre “suo fratello Andrea con parecchi altri rimasero morti nella mischia”. In seguito, “i cittadini esultarono per questo fatto, imperocché di nuovo riacquistarono la libertà, e sembrava che lo spirito delle fazioni fosse scomparso”. 

Le fonti antiche, o perdute o reticenti o di parte, più che altro tacciono, quasi vergognandosi di citare quel nome. Sul finire del Quattrocento, Leone Cobelli si limita, in tre righe latineggianti, a dire che nel 1257 Andrea Mascaguerra fu ucciso dalla famiglia di Peppe Peppi (de Pepis), Atiberto (o Tiberio), Giovanni, Guidone, Aliotto e Bartolomeo. In seguito venne dato fuoco alla sua casa. Ben si guarda dal citare Simone e la sua sorte. 

Nell’Ottocento, invece, la figura di Simone Mastaguerra divenne interessante da un punto di vista romantico, politico, insomma, proprio dell’afflato del secolo. Egli, infatti, veniva tratteggiato come “capopopolo”, “nato di plebe, ma che a non comune ingegno accoppiava una qualche istruzione”. Costui, “a trent’anni, dotato di una grande forza fisica e facile nella loquela” si lanciò nell’impresa di far sua la sua città. Queste parole sono tratte da un romanzo storico di Bartolommeo Fiani intitolato “L’assedio di Forlì”, pubblicato nel 1869. Qui si legge di vicende ambientate nella Romagna di quegli anni e Mastaguerra si trasforma in un personaggio eroico, tragico, da melodramma: il Signore plebeo. Oggi sarebbe degno di una serie televisiva.

“Una bella mattina di primavera successa a una notte tempestosa, - si legge nel romanzo - dopoché, uscito allo spuntar dell’alba dalla città per la porta Valeriana, procedeva solingo a diporto per la campagna. Egli aveva preso il sentiero conducente a Castrocaro, come quello che più solitario, ed ombreggiato era, per abbandonarsi alle sue meditazioni con tutta libertà, e senza pericolo d’esserne distratto. Armato di lungo nodoso bastone dal pomo ferrato, che egli usava portare quando gli occorreva batter la campagna, non tanto per propria difesa, (…) egli incedeva col capo piegato sul seno passando colla mente in rivista tutte le possibili eventualità dell’impresa che andava meditando”. Ecco dunque che, in mancanza di univoche voci storiche, compensa la fantasia, fantasia ancorata a una vicenda verosimile che vuol rendere il “tiranno” un campione di quel popolo che vuol liberarsi dai soliti (pre)potenti.

“Simone, salito al supremo potere per forza di plebe, per quanto il suo governo procedesse a principio mite ed umano, e con savie leggi si fosse fatta aderente la maggioranza dei cittadini, tuttavia, mal visto era dall’ordine nobile della città, che non poteva dimenticare l’origine d’una Signoria sorta coll’umiliazione e sulle ruine del patriziato”. Si aggiunge, però, che aveva dei problemi anche con i ceti umili: “non riusciva più a tenere in freno” la plebe che “minacciava da vicino la dissoluzione di ogni civile e sociale ordinamento”. Quindi non era un demagogo, il buon Simone: era un popolare che ha governato Forlì con giustizia. Almeno ciò si vagheggiava secondo lo spirito del tempo e piace ancora oggi immaginarlo così. Ha avuto contro tutti, e primo di tutti, in modo subdolo, Andrea, quel parente tanto stretto quanto lontano. Il romanzo prende subito le parti: se Andrea è “ribaldo”, a Simone tutti i cittadini riconoscono “mitezza ed umanità”. 

Tuttavia, i nemici erano tanti (è pur sempre il Duecento): tra questi ecco il “beccaio Bartolaccio” con cui Simone ha uno scontro, ricevette da lui una freccia nel fianco ma prontamente la estrasse e la “immerse nel core del beccajo gridando: così, manigoldo, riprenditi il tuo ferro ed abbiti la pena del tuo tradimento”. La ferita, però, era profonda e grave, tanto che Simone dovette curarsi: in sua supplenza il governo fu retto da Andrea. E qui iniziano i problemi più gravi. 
La signoria dell’altro Mastaguerra era spietata, usava modi spicci e violenti, tanto che Nanni Morattini “uno dei primarii patrizii forlivesi” ed Ettore Menghi “uomo ricchissimo, universalmente stimato per la sua pietà” esposero “in Palagio” delle “pubbliche querele per le violenze e gli arbitrii” commesse dalla nuova gestione. Per tutta risposta, Andrea “li fece entrambi sostenere in carcere”. 

Si diffuse una generale indignazione, qua e là sorgevano capannelli e serpeggiavano mugugni e malcontento. “Agli imprigionamenti seguirono processi sommari nei quali gli stessi delatori erano accusatori e testimoni, ed agli accusati veniva negato il diritto alla difesa. Molti cittadini ebbero mozza la testa; contro i nobili fu decretato il bando e la confiscazione dei beni”. E “fece arrestare Alloro e Teobaldo Ordelaffi, Giovanni Pungetti, Orsello Orselli, un Calboli, un Orgogliosi, un Clarici, un Numai, Dentacoro Merlini Zotti e Berengario Laziosi (padre di San Pellegrino)”, definiti “i più distinti ed autorevoli cittadini”.  Insomma, “non vi fu un cittadino che in un modo qualunque non patisse ingiuria”; nessuno, a parte Guido Bonatti l'intoccabile, venerato anche dai nemici. Costui, quindi, convocò “nel palagio Còrbizi” di Castrocaro una riunione tra fuoriusciti per gettare le basi della rovesciamento del tiranno. 

In effetti ciò accadde e fu nominato un governo provvisorio di larghe intese guelfo-ghibelline con Alloro Ordelaffi, Giovanni Orgogliosi e Francesco Calboli. Andrea Mastaguerra era morto durante l’insurrezione, Simone era fuggito ma dovette scontare la pena del bando perpetuo dal territorio di Forlì. Ecco dunque, Simone Mastaguerra sarebbe stato anche un buon Signore e i forlivesi glielo riconoscevano: per la fantasia di Fiani era del tutto ignaro delle atrocità commesse da Andrea durante la sua infermità. Andrea il Signore cattivo, Simone il Signore buono, entrambi sconfitti dalla storia. La politica liviense venne diserbata dalla malapianta dei Mastaguerra per l'eccesso tracotante di uno dei due fratelli. 

Dunque, oltre a suggestioni letterarie, che indizi rimangono? Più che altro eco di domande. Simone Mastaguerra: che sia stato tiranno o campione di libertà resta un mistero. Esecrato da alcuni, idealizzato da altri, si pone ai posteri una sentenza impossibile. Pare però che fosse un “ignavo”, né guelfo, né ghibellino, per mitezza o per interesse, e abbia saputo essere mediatore tra le fazioni fino a sfruttare le comuni debolezze onde acquisire potere. La sua “terza via” non fu apprezzata e venne tolto di mezzo da guelfi e ghibellini fino a scomparire dalla storia, cancellato come una vergogna, probabilmente pure calunniato da cronisti cari al potere consolidato. Dopo di lui, le cronache sembrano tirare un sospiro di sollievo. 


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