La Ripa è il cuore di Forlì

Silenzioso e appartato, il vecchio monastero caro a Pino III e Caterina Sforza è un luogo da salvare, presto e bene


Nei giorni scorsi è emerso che tra “lI Luoghi del Cuore” proposti dal Fai, l’ex monastero di Santa Maria della Ripa ha ottenuto un numero di voti largamente superiore ad altri monumenti di Forlì. Non si tratta, per ora, di una quantità esagerata c’è però tempo fino al 15 dicembre per scegliere il luogo preferito da tutelare. Ciò basta a riportare all’attenzione anche mediatica di un gigante silente che se ne sta lì, nella parte più antica del centro storico.

Con il fascino della lingua di allora, quell’idioma locale artigianale di Andrea Bernardi detto Novacula (1450-1522) di nascita bolognese, si ripercorre l’origine del luogo. Spiace che da tempo – tra occasioni perse, sbadataggini e inerzia - l’enorme potenzialità del sito sembri incompresa né sia oggetto di volontà di recupero. Forse a molti forlivesi (anche perché da anni è inaccessibile) sfugge l’enorme importanza di quanto è in discussione. Tra qualche anno sarà irrecuperabile e una città come Forlì, che tenta anche la via turistica, perderebbe una necessaria testimonianza storica. 

All’origine, nel monastero (che allora altro non era che “uno logozole picole”) vi stavano “cerca 16 sore”. Si tratta di suore del terz’ordine di San Francesco che nel 1474 si erano stabilite nella casa detta della Torre, nei pressi del mulino e dell’ospedale di Santa Maria della Ripa da cui tutto poi, ancora oggi, prende il nome. Pino III Ordelaffi “e Licorecia sova dona” (cioè Lucrezia, sua moglie) “tramidui insemo erano in quel tempo multe devotisimo” (erano entrambi molto devoti) tanto che “avevano determenato de farlo uno beletisime monesterio”.

Questo perché la coppia era particolarmente colpita dalla “vita honesta e santa”, delle “serure (suore) dal terzo hordino dil’abito di santa Chiara benedetta”. Era il 1479, e i finanziamenti vennero da disposizioni testamentarie di Caterina Rangoni, madre di Pino III, che in realtà avrebbe voluto costruire un monastero a Faenza, però Pino “felo a Forlì”. E la di lui “seconda dona”, Zaffira Manfredi aveva lasciato la “mazore parte” della sua dote “che pure s’avese a spendre in dita fabrica”. Così iniziarono i lavori: l’Ordelaffi aveva regalato il terreno alle suore e avviò il cantiere. La “grandenisima fabrica”, però, sarebbe stata ancor maggiore “s’ai non fuse intravenute la morte del prefato Pino”. 

Il cantiere, quindi, rimase fermo, cioè “tuto serato” finché il nuovo padrone di Forlì, Girolamo Riario, decise di riprendere in mano la situazione. Gli parve, infatti, “che in questo logo ie fuso poche serure”, fece una bella levata di tasse a “multe cetadine” e così ebbe “acresuto” le “intrade”. Riario si recò quindi a Ferrara “e fece venire cercha 10 serure de dita hobservancia”. Nel 1484 furono completate le mura perimetrali tutt’ora esistenti. Morto (ammazzato) pure il Riario, la palla passò alla vedova Caterina Sforza, la quale “considirande al grande beneficio che n’aveva a prevenire ala salute deli anime nostre” dimostrerà la volontà di completare il grande monastero. In effetti: “al dite monesterio fu consagrato a dì 7 di maze 1497 die dominicha per mane de Missere don Tomase dali Aste in queste tenpo nostre veschove”.

Nel 1494 era stata consacrata la chiesa anche grazie alle ambascerie di Caterina Sforza che “sempre fu spirtuale” al nuovo papa Alessandro VI, e lei ne fu “multo contentissima”. Così si procedette a terminare l’antico progetto atto a “pregare l’onipotento Idio che se voglia degnare de donare la vita beata a zaschaduna anima cristiana”. Per Caterina Sforza, la Ripa è il “soi munisterio” (il suo monastero) e la “soa cracione” (la sua creazione), pertanto sarebbe sensato, visto che da un paio d’anni ha preso piede, che il prossimo festival dedicato alla Tigre di Forlì si svolgesse all’interno delle mura dell’antico luogo di culto. Ovviamente se qualcuno manifestasse la volontà di mettere il complesso in sicurezza. 

Per chi non l’avesse capito, ogni slancio della città senza una conservazione e un recupero del vecchio monastero resterebbe una velleità, o lettera morta, trattandosi di un’eredità tangibile, eredità Ordelaffi e Riario Sforza. Il cronista forlivese Leone Cobelli (1425-1500), dal canto suo, non spreca parole, limitandosi a: “L’anno 1497, adì 7 de magio. Fo sacrata sancta Maria de la Riua per mani de misser Tomasi da li Asti episcopo forlouese”. Apodittico e sintetico, come se non ci fosse bisogno di spiegare più di tanto, vista l’importanza del luogo. Però ha modo di ricordare pure che Alessandro VI, papa Borgia, il 15 aprile 1493 aveva confermato per tre anni “uno perdono generale de pena et de colpa a Sancta Maria della Ripa”. Perdono (o indulgenza) che “fu certo una bella cosa, e fogli gente assai forestiera”. A questo punto, più di cinque secoli dopo, si spera che in brevissimo tempo sia salvato il cuore silenzioso di Forlì.

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