Ballotaggio a San Francesco

 Gli ultimi ingressi nel grande convento forlivese. E se Cavour lasciasse il posto al poverello di Assisi?

Nell'immagine, parte dello spazio un tempo occupato da San Francesco Grande

Il mese che anticipa il Natale a Forlì è scandito da una serie di festività religiose che riportano la luce nelle giornate più buie dell’anno: il 25 novembre è Santa Caterina e il 13 dicembre è Santa Lucia. Su tali ricorrenze il Foro di Livio ha già raccontato quel po’ che si sa delle origini. Restando in ambito religioso, in questo periodo del 1796 si registrano gli ultimi ingressi nel convento dei minori di San Francesco Grande in Forlì.

La facciata della grande chiesa di origine duecentesca era visibile scendendo via Orselli da via delle Torri mentre l’abside invadeva via Matteucci. In quegli anni appariva in buona parte smantellata a causa di danni da terremoto ma ne era sorta un’altra, più piccola. Il convento, lì accanto, si estendeva entro un’area che corrisponde a quella del Mercato delle Erbe. Nella piazza, intitolata ora a Camillo Benso conte di Cavour, nulla richiama alla secolare presenza francescana: neanche i tanti locali che vi sono spuntati prendono spunto dalla storia del grande complesso sacrificato sull’altare dello spirito del tempo. 

Avvenne che il guardiano del convento forlivese, Padre Francesco Menganti, il 19 dicembre 1796 avesse convocato i Padri Agelli, Balducci e Belli per proporre loro la “figliolanza” dei giovani Francesco Zampini e Giacomo Moschini. Il primo era “già figlio del convento di San Leo nella Marca”, mentre il secondo era un frate originario di Ferrara. Come consuetudine, si prese tempo per una veloce istruttoria onde scoprire chi fossero i candidati alla vita conventuale in Forlì. Più avanti si procedette alla “ballottazione”. Si trattava di quel tipo di votazione che oggi si dice “ballottaggio” e che ha proprio origine in ambito monastico: il sì o il no era dichiarato da una “ballotta” bianca o nera inserita entro un’urna. Il risultato, frutto della volontà della maggioranza, diventava legge per la comunità religiosa.

Così i francescani conventuali di Forlì, il 24 dicembre dello stesso anno, “contenti che si venisse alla ballottazione” votarono per la “figliolanza” dei due nuovi ingressi in San Francesco Grande: “i voti furono tutti favorevoli onde restarono tutti due aggregati a questo nostro convento”. Nessuno, in quel momento, sapeva che sarebbero stati gli ultimi inserimenti nella fraternità del vasto spazio consacrato che di lì a qualche mese sarebbe stato sconvolto in modo irreparabile dal passaggio dei francesi di Napoleone. In qualche anno sarebbe scomparsa ogni parvenza di quel luogo antico, in seguito sostituito dall’ampia piazza elegante del mercato. Difficile sapere che strade avranno preso Francesco e Giacomo: già l’estate successiva sarebbero stati costretti ad andarsene senza poter fare più ritorno. 

Stesso luogo, periodo simile, altra nuova “figliolanza” per il convento di San Francesco Grande. Si tratta di un lettore di filosofia di Faenza, tale Antonio Ravajoli, facente parte del noviziato di Bologna. L’allora padre guardiano, Agostino Regoli, il 1° dicembre 1789 convocò Luigi Agelli, Francesco Antonio Reggiani, Francesco Antonio Balducci, Fabio Morgagni per decidere che fare. A favore di Ravajoli c’era “l’assenso dei figli del convento e l’approvazione per lettera di Padre Menganti, maestro dei Novizi in Bologna”. Così, nei termini previsti dalle regole dell’Ordine, si procedette al ballottaggio: “il bianco corrisponde a favorevole e il nero contrario, tutti i voti raccolti furono bianchi”. 

Da Bologna si comunica il grande dispiacere causato da “l’inaspettata risoluzione” di questo trasferimento a Forlì del giovane Ravajoli. E, sembra quasi con stizza, il convento felsineo scriverà ai conventuali forlivesi queste parole che lasciano intendere una storia di cui tutti gli estremi non potranno mai essere conosciuti: “Era superfluo che mi scriveste. Mi scrisse già il P. Balducci, ed in questo ordinario gli rispondo che sono contentissimo. Mi dispiace che fate un cattivo cambio. Basta! Vi contenterete delle nostre miserie. Scrivo in fretta, sta per partire la posta. Addio”. Questi nomi, queste parole cristallizzate nell’inchiostro di un verbale, sono le ultime tracce di una Forlì del tutto ingoiata dal tempo a causa di coincidenze sciagurate e volontà di quegli anni di cambiamenti fin troppo radicali. La carta superstite del convento forlivese ora è conservata all’Archivio di Stato, è ben poca cosa rispetto a quanto si possa pensare; pare evidente che sia stato tanto facile sbarazzarsi di cinque secoli di storia. Oh, se almeno piazza Cavour tornasse al nome delle origini: campo San Francesco! Si passerebbe agevolmente da uno di padri dell'Unità d'Italia al Patrono d'Italia, conservando e rivalutando appieno l'eredità di secoli di storia forlivese. Se ci fosse una “ballottazione” per tornare o meno al toponimo antico, quale sarebbe il risultato?

Commenti